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MICHELE MONNO
a cura di
Michele Monno

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BARISERA, 21 DICEMBRE 2002

" STATO SOCIALE"

BARI - Welfare state o stato sociale è un'espressione con la quale si indica quello stato che garantisce a tutti i cittadini il conseguimento di un tenore di vita minimo per quanto riguarda il reddito, la tutela della salute, l'istruzione, l'alimentazione e l'abitazione. Lo stato sociale presuppone la realizzazione di ampi programmi di spesa pubblica, finanziati attraverso sistemi fiscali, che attuino una ridistribuzione equa del reddito nazionale. Fin qui le definizioni classiche. Ma in Italia il welfare state ha innescato meccanismi perversi negli ultimi 30 anni ed è vivo il dibattito oggi sulle ipotesi di riforma, legate alla stagione dei nuovi diritti. Di queste tematiche appassionanti e coinvolgenti, ne abbiamo parlato con Michele Monno, presidente barese della Margherita e imprenditore impegnato da anni nell'ideazione di modelli nuovi d'intervento nel sociale.
Il vecchio modello di welfare state è entrato in crisi in tutta l'Europa occidentale. In Italia ha espresso le più evidenti storture. Nelle linee generali, può esistere ancora oggi uno stato sociale?
"Lo stato sociale in Italia è deficitario già da un trentennio, in quanto i suoi interventi sono stati legati più alla condizione di ammalati o di cassaintegrati, in riferimento al mondo del lavoro, che non all'interno dei diritti acquisiti per la sopravvivenza. Un corretto welfare dovrebbe garantire il diritto alla sopravvivenza ai cittadini, poiché la nostra società occidentale ed industrializzata detiene le forze e le capacità produttive affinché questo diritto possa essere elargito nei confronti di tutte le categorie deboli. E deboli lo siamo un po' tutti. Ci possono essere dei momenti della vita, infatti, in cui tutti possono fare riferimento ad uno stato sociale. In particolare, devono essere difese le categorie svantaggiate, gli anziani senza reddito, i giovani con difficoltà d'inserimento lavorativo, i portatori di handicap, e così via. Insomma, una varietà sterminata di categorie, stimabile intorno al 10 per cento della popolazione, ha bisogno di interventi costanti e particolari. C'è poi un altro 20 per cento, gli anziani in special modo, i cui destini di solitudine e abbandono spesso hanno poco a che fare con il diritto alla sopravvivenza. Ma il welfare è gestito in Italia secondo piccoli diritti acquisiti da categorie forti, e non come categorie che si riferiscono alla persona umana. Si possono registrare una serie di deviazioni, in quanto sono le categorie dei più garantiti a imporre regole che nulla hanno a che fare con la giustizia sociale".
Le anomalie italiane del welfare si possono ricondurre a precise responsabilità di enunciazione legislativa o di attuazione politica?
"L'anomalia principale si può ricondurre alla Costituzione, che è stata fondata sul diritto al lavoro e non su quello alla sopravvivenza, che contempla i diritti fondamentali delle persone, come mangiare, vestire, alloggiare, curarsi, istruirsi. Queste sono le componenti di base per uno stato democratico. Al contrario, in Italia è sopravvalutato il concetto di diritto al lavoro, non contemplando in pieno che il lavoro ha anche delle componenti di forti doveri. Questa filosofia di partenza ha minato l'apparato dello Stato ed anche i grandi apparati produttivi, con una formazione di diritti a cascata dai quali poteva provenire il diritto sopravvivenza, proprio perché non garantito al cittadino in quanto persona ma in quanto lavoratore o ex lavoratore. In questi termini, come si può aiutare, per esempio, una povera anziana abbandonata, che non viene dal mondo produttivo?".
Diritto al lavoro e diritto alla sopravvivenza marciano di pari passo?
"Le due cose sono in relazione tra loro, perché la base produttiva deve garantire lo stato sociale attraverso il sistema della tassazione. Ma ci devono essere precise garanzie perché si provveda seriamente alle esigenze dei poveri e degli emarginati. Se, invece, tutto resta in mano alle categorie più aggressive è chiaro che si scompensa l'intero sistema sociale. Sono stato testimone di casi di imprenditori andati in malora e ridotti allo stato totale di povertà perché il diritto al lavoro non era acquisito per loro. In queste condizioni, gli sconfitti sono portati ad essere bruciati. I governi di centrosinistra avevano tentato un'innovazione, creando le card del reddito minimo, onde evitare una successione d'interventi sulla stessa persona. Si tentava. con questa operazione. di definire le classi reddituali di chi doveva accedere al welfare. Tutto quello che esiste, invece, è solo una pletora di interventi che derivano dal diritto alla salute, come il diritto all'accompagnamento, elargito a piene mani nei nostri comuni, o le pensioni sociali d'invalidità. Viviamo in uno stato complesso che non si rivolge al cittadino, ma ha solo emanato una serie d'interventi sovrapposti che spesso non colpiscono l'obiettivo del diritto alla sopravvivenza. Un milione al mese (io dico anche un milione e 200mila) devono essere soglie d'accesso del diritto alla sopravvivenza, diverse da quelle del diritto al lavoro che non può partire da stipendi inferiori a un milione e 700mila al mese. Sul lavoro bisogna essere premianti rispetto al diritto alla sopravvivenza. C'è da registrare, in più, uno spreco di fondi pubblici colossali nell'organizzare il welfare state".
Queste problematiche sono oggetto di studio da parte di organizzazioni o singoli legati al mondo della politica, della Chiesa, dell'economia. A che punto è la riflessione sulla riforma del welfare in rapporto alle nuove dinamiche del mercato del lavoro?
"Nel centrosinistra, gli uomini più vicini a Romano Prodi e alla scuola bolognese del Mulino, sono sempre stati sensibili a queste problematiche. In loro però non è stato sviluppato l'impianto teorico dei diritti. Un problema teologico grave, da riportare anche all'interno della dottrina sociale della Chiesa, in quanto il Concilio Vaticano II ha ribadito l'essenza dell'uomo come creatura umana, e quindi il diritto alla creazione come diritto al lavoro. Altri teologi, invece, hanno ridimensionato al ruolo si semplice racconto, la favola della Genesi, dei sette giorni della creazione, come una fase di costruzione di testi biblici per spiegare al popolo l'esistenza della settimana. Nel Vangelo, poi, di diritto al lavoro ne vediamo ben poco. Gesù rivendica il diritto alla sopravvivenza ed alla salute delle persone".
Il diritto alla sopravvivenza, dunque, può essere garantito solo da una struttura statuale. Non si può lasciare la materia come appannaggio esclusivo delle scuole religiose o di pensiero.
"Ma dalle strutture di pensiero religiose e di coscienza, deriva l'elaborazione giuridica, teorica e strutturale dello Stato, non viceversa. Non possiamo fare a meno dello Stato che deve essere la fonte di mediazione tra gli interessi produttivi. Sono essenziali, dunque, la politica e il governo. E' interesse della produzione che il welfare funzioni. Soltanto uno Stato strutturato che possa modellare gli interventi sulla produzione, quindi anche la fiscalità, può garantire agli altri l'acquisizione dei diritti alla persona. Solo lo Stato ha una struttura per poter bilanciare questi problemi sociali. Le imprese non devono essere gravate sempre dal superamento di sè, perché l'eternità non esiste neanche per loro. Ci sono imprese storiche, con lavoratori di 50 anni, che ad un certo punto vanno fuori mercato. E' una tragedia ricollocare sul mercato del lavoro i cinquantenni. Ecco allora che scattano le furbate, si allunga la cassa integrazione, i lavori socialmente utili fino alla pensione. In pratica si creano pensionati di 50 anni, un'altra ingiustizia dello stato sociale. Lo Stato non ha mai organizzato un'area diversa tra lavoro produttivo e sopravvivenza".

 


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